08 Luglio 2011
8 Luglio 2011
La testimonianza di Ugo Passanisi, di un suo vissuto, negli anni del dopoguerra per fare ritorno in Libia.
Al termine di questa serata che ha rappresentato un nuovo successo per la nostra Unitre, consentitemi di intrattenervi per pochi minuti ancora con il breve racconto dell’ultima tappa che chiude il ciclo del mio lungo peregrinare dalla natìa Cirenaica, sempre inseguito dall’onda lunga della guerra.
E’ il racconto del ritorno in Africa, negli anni dell’immediato dopoguerra, di quelle migliaia di italiani che, in seguito alle vicende belliche, erano stati costretti ad abbandonare i loro beni ed i loro affetti, e che, testardamente, vollero tornare a casa, da clandestini, sulle stesse rotte e con gli stessi precari mezzi con i quali, oggi, una massa di disperati fugge da quel Continente alla ricerca di un destino migliore.
Era il mese di giugno del 1946, ed avevamo già effettuato un primo fallito tentativo di attraversare il Mediterraneo con una motobarca stracarica di donne e bambini terrorizzati e che, per le pessime condizioni del mare, aveva corso il rischio di affondare.
Tornati ad Augusta dopo quella drammatica esperienza, qualche settimana dopo riuscimmo a contattare il Padrone marittimo di un motopeschereccio che dovendo recarsi in Tunisia per caricare legname, si dimostrò disposto a correre il rischio di trasportare in Libia dei clandestini per ammortizzare le spese del viaggio d’andata a vuoto. Al calar della sera del 25 luglio 1946 ci imbarcammo cautamente al Porto Vecchio di Siracusa insieme ad un altro numeroso gruppo di clandestini e, nel massimo silenzio e a luci spente, salpammo per la nuova avventura: il mare era calmo, la barca abbastanza grande e l’equipaggio faceva del suo meglio per alleviare il nostro disagio. Il viaggio fu senza storia e, all’imbrunire del secondo giorno di navigazione, finalmente intravvedemmo all’orizzonte, anche se ancora molto lontana, la costa africana.
Costeggiammo ancora per un poco fino a notte, poi il Capobarca, che non voleva correre il rischio di essere intercettato ed ispezionato da qualche motovedetta inglese, ci diede l’ordine di sbarcare. Erano le 23.30 del 27 luglio 1946, e, dopo quasi cinque anni di dolore, di fame, di fughe, di disperazione e di pericoli miracolosamente scampati, stavamo per appoggiare nuovamente i nostri piedi sulla terra dove eravamo nati.
I fondali della Libia, sabbiosi e bassissimi fino al largo, ci costrinsero a scendere in mare con l’acqua alla vita, tenendoci per mano per sostenerci l’uno con l’altro, trascinando le nostre povere cose. Giungemmo, infine, sul litorale, sulla battigia, sulla sabbia bianca e pulita che ci era così familiare nei nostri ricordi, e lì ci raggruppammo, al riparo della scarpata della strada costiera che correva più in alto, famiglia per famiglia, in silenzio, un po’ per il timore di essere scoperti, un po’ per vivere, quasi religiosamente, l’emozione di quel ritorno.
Sapevamo che non appena il nostro arrivo fosse stato scoperto dalle pattuglie militari inglesi e della Polizia libica che perlustravano la strada costiera, le donne ed i ragazzi più giovani sarebbero stati tradotti in un campo di concentramento in attesa di un processo sommario, al termine del quale sarebbero stati rilasciati contro il pagamento di un’ammenda.
Non così per i giovani di età superiore ai 16 anni per i quali era previsto l’arresto e l’immediata espulsione. Io avevo da pochi mesi superato quell’età e, nel gruppo appena sbarcato, non ero il solo in quelle condizioni. Decidemmo in tre di tentare di raggiungere Tripoli a piedi, nascondendoci lungo la strada per sfuggire alla cattura. Era da poco passata la mezzanotte, e, avendo appreso da una pietra miliare sulla Via Balbia che Tripoli distava 45 chilometri dal punto dello sbarco, valutammo che avremmo potuto raggiungere la città prima dell’alba camminando di buona lena per tutta la notte.
Con gli altri due compagni ci accordammo sul passo da tenere e sulle soste, in ogni caso brevissime, che avremmo effettuate lungo il tragitto. Cercai di rassicurare mia madre ed i fratelli, in lacrime per l’apprensione, poi, risalita la scarpata per raggiungere la strada costiera, ci allontanammo rapidamente senza perdere altro tempo poiché ogni minuto di ritardo in più avrebbe aumentato il pericolo di essere scoperti.
Anche alla fine di luglio le notti nel deserto sono freddissime poiché la sabbia rovente disperde rapidamente il calore del sole accumulato durante il giorno, e poi indossavamo soltanto abiti estivi, per di più inzuppati d’acqua di mare per l’imprevisto bagno notturno, e calzavamo sandali leggeri. Camminammo per ore sulla strada deserta, nascondendoci ai margini fra i cespugli, quando in lontananza il rombo di un motore ci avvertiva del sopraggiungere di qualche automezzo. Superammo, con ampie deviazioni, accampamenti di tende che a noi parvero militari, ma che, probabilmente, erano di beduini.
Fummo seguiti per ore da cani latranti che eravamo continuamente costretti a mettere in fuga a pietrate. Il freddo pungente della notte ci intirizziva, i piedi cominciarono ad escoriarsi e a sanguinare e fummo costretti a proseguire scalzi per alleviare il dolore. Sostammo, di tanto in tanto, per un breve riposo, vegliando a turno sui compagni. Infine, verso le 6 del mattino, giungemmo nei pressi dell’Ospedale Civile di Tripoli, alla periferia della città.
Qui ci vide il conducente di un camioncino carico di bidoni di latte che comprese subito la situazione, ci fece salire sul suo furgone, ci ricoprì con un telo e ci trasportò in città. Durante il tragitto si offrì di avvertire, lui stesso, i nostri parenti del nostro arrivo.
La nostra lunga “Odissea”, anzi, la nostra “Anabasi” era terminata. Eravamo tornati a casa.
Ugo Passanisi