14 Febbraio 2012
Pubblichiamo la relazione, dal tema "CONOSCERE L’UOMO PER CONOSCERE NOI STESSI", del Dott. Francesco Cannavà nel secondo incontro a tavola rotonda del 26 gennaio 2012, presso l'aula Magna del 2° Ist. di Istr. Sup. “A. Ruitz”.
Dott. Francesco Cannavà – Curriculum
Nato ad Augusta il 24 luglio 1974.
Residente ad Augusta, dove opera come psicologo libero professionista e consulente presso il proprio Centro di consulenza.
Laureato il Psicologia Clinica presso l’Università La Sapienza di Roma, ha conseguito Master in Psicologia dello Sport, in Consulenza Sessuale e di Coppia, in Psicologia giuridica.
È esperto in tecniche di rilassamento psicocorporeo.
Già collaboratore presso il Policlinico Umberto I di Roma, dove ha condotto per anni gruppi di rilassamento a scopo di ricerca.
È attualmente responsabile scientifico del Centro Pluridisciplinare di Consulenza Psicologica Cannavà.
È il responsabile incaricato per il centro-sud Italia per la formazione e la gestione degli eventi critici presso diversi gruppi Bancari.
È consulente tecnico d’ufficio presso il Tribunale di Siracusa.
CONOSCERE L’UOMO PER CONOSCERE NOI STESSI
Da millenni ormai l'uomo cerca di definire se stesso, cogliendone ogni volta peculiarità tipiche del proprio campo di osservazione.
Ogni definizione pertanto riesce ogni volta parziale e incompleta.
Tra tutti gli esseri viventi sulla terra siamo gli unici ad avere un dono, frutto dei processi messi in atto dal nostro avanzatissimo apparato cerebrale: la consapevolezza di noi.
Sotto il profilo psicologico, il compito di capire l'uomo si è dimostrato arduo, complesso e spesso incompleto.
Se chiedessimo agli evoluzionisti, l'uomo sarebbe il risultato di un processo evolutivo che ha portato una classe di primati ad adattarsi all'ambiente ad un livello così alto da arrivare essi stessi, oggi, ad adattare l'ambiente a sé stessi…un evolutissimo animale.
Per Freud la natura intelligente dell'uomo è mossa da pulsioni contrapposte che determinano comportamenti recanti piacere contro comportamenti autodistruttivi, all’origine dei quali sono le dinamiche relazionali…un istinto imbrigliato in stereotipi e costrizioni socioculturali.
Jung sostenne che gli uomini non sono individui "soli", ma esseri sociali, simili a tal punto che secondo la teoria degli archetipi, ricorrerebbero gli stessi modelli umani in tutte le società, capaci di determinare dinamiche definite, analizzabili con modelli predittivi… L’uomo comincia ad essere meno solo, a far parte di una rete in cui l’elemento singolo, scisso dal gruppo, perde di significato generando disagio.
I cognitivo comportamentisti fanno dell’uomo l’essere pensante per eccellenza, in cui ogni processo mentale ha un perché e determina un comportamento, che innesca, in una rete interconnessa di individui, un circolo di causa effetto in cui il senso della propria esistenza sfugge a categorizzazioni troppo rigide e a generalizzazioni, acquistando un valore soprattutto individuale e personale.
Il modello più recente, bio-psico-sociale tiene conto dell’individuo per le sue caratteristiche di unicità fisiologica, quindi mentale, quindi comportamentale e lo inserisce in un contesto continuamente condizionante su tutti i livelli sopra citati.
È in questo modello, in cui il centro di sé stessi non sempre è dentro di sé, perché può essere nel gruppo, o oltre, nel divino, che si colloca il credere.
Credere nell’altro, umano o sovraumano, per riempire le lacune che la consapevolezza di sé mostra dolorosamente all’uomo che si interroga.
La consapevolezza quindi, illumina l’uomo e lo eleva sulle altre specie.
Mettendo in luce i propri limiti e le proprie potenzialità.
Ritengo, con estrema modestia, che conoscere l’uomo e quindi se stessi vuol dire conoscere, attraverso l’esperienza di vita, le proprie possibilità ed avere una stima obbiettiva di sé (autostima) per sapere su cosa contare nel nostro viaggio verso il futuro.
Ma vuol dire anche conoscere ed accettare i propri limiti, per creare aspettative realistiche di vita, per mantenere viva la sfida con sé stessi, per sapere dove fermarsi e lasciare spazio all’altro che è accanto a noi.
Accettare i propri limiti talvolta vuol dire non poter andare oltre per sperimentare di persona cosa c’è.
In tal caso superare il proprio limite vuol dire credere, per fede, che ci sia una realtà che magari i limiti del nostro sistema percettivo di cellule, tessuti e processi non può cogliere, ma è là, come il sole che scalda il volto di un cieco.
Dott. Francesco Cannavà