monscostanzo_0Pubblichiamo la relazione integrale di Monsignor Salvatore Costanzo, Arcivescovo Emerito di Siracusa, esposta, il 15 Aprile 2013, durante la quinta tavola rotonda organizzata dall'Unitre di Augusta, presso l'aula magna del 2° istituto A. Ruitz, dal tema “ La città e l’uomo.

 

“ La città e l’uomo”

La realtà sociale nella città di oggi: diagnosi e terapia

 Premessa:   

La città è il luogo dove abitiamo, lavoriamo, ci relazioniamo; dove si concretizza la nostra convivenza sociale. Come nota Enzo Bianchi, a volte la città è sentita come “amica”, cioè abitabile, luogo di umanizzazione e di crescita umana; altre volte si presenta come “nemica”, ossia come un luogo che contraddice la qualità della vita, delle relazioni, quando non è segnata dalla disumanità e dalla barbarie.

Nella Bibbia la città ha un grande rilievo: basti pensare al fatto che Dio consegna all’uomo da Lui creato, un giardino (Cfr Gen 2,8), ma alla fine della storia ci sarà una città, la nuova Gerusalemme che scende dall’alto ma che anche gli uomini hanno contribuito a costruire (Apoc. 21-22).

Nella città il male si fa più evidente, tuttavia è proprio la città che permette la socialità, la solidarietà, la “communitas”; è la città che fa uscire dalla logica della tribù e del clan e consente di vivere la pluralità, la diversità.

Entriamo nel tema.

La città, oggi, vive una crisi profonda. Una crisi che non è solo economica e finanziaria, ma anche sociale e soprattutto culturale e spirituale.

Il tema è vasto e complesso. Mi limito, perciò, ad alcune annotazioni essenziali. Ho trovato molto utile un articolo di P. Bartolomeo Sorge, il quale, ricorrendo ad una immagine - afferma - che hanno perso il loro significato i tre luoghi - simbolo, intorno ai quali la città è nata e si è costruita nel tempo e dai quali – fino a non molti anni fa – traeva alimento:

  • la Piazza, che è sempre stata il luogo per eccellenza della vita sociale e delle relazioni interpersonali degli abitanti;
  • il Palazzo di Città, cuore pulsante della vita amministrativa e politica;
  • la Cattedrale (o la Chiesa), segno e culla dell’unità spirituale della popolazione.

Oggi, questi simboli si sono offuscati. La città ha perso l’anima. C’è in atto – accanto alle altre crisi – una crisi di cittadinanza ed è venuto meno il senso del “bene comune”.

Chiariamo un istante questi due concetti.

  1. Anzitutto la crisi di cittadinanza. La descrizione più sobria e completa mi sembra quella che ne fa Lorenzo Biagi: “ In questo momento storico, per quanto ci giriamo attorno individuando colpevoli da ogni parte, dobbiamo riprendere in mano la questione originaria: qual è la qualità della mia e della nostra coscienza civica? Il mio senso civico è ancora vitale e non si è piuttosto deteriorato? Perché, quando si pensa solo a se stessi, si finisce irrimediabilmente per farsi gli affari propri a scapito di tutto il resto. Là dove c’è un clima sociale e una società ripiegata su se stessa, rivendicativa e rancorosa, con obiettivi di piccola portata, divisa e diffidente; là dove la società è un insieme inconcludente di elementi individuali,  senza nessuna coesione, di soggettività esasperata e senza fini tenute insieme da connessioni deboli; là dove la sfiducia nell’altro diventa fatto ordinario e “normale” (due italiani su tre dichiarano  d’accordo con l’affermazione che “è meglio guardarsi dagli altri, perché potrebbero approfittare della nostra buona fede”), è chiaro che lì, gradualmente, ma con certezza, il legame sociale progressivamente si deteriora e si afferma un clima da guerra di tutti contro tutti. Quella che si chiama “solidarietà umana”, “civica”, quella mano cioè che si dovrebbe dare per puro spirito di appartenenza alla nostra comune umanità, si è come dileguata. Gli anziani non si fidano più dei giovani; li sentono inaffidabili e rapiti da interessi futili e da valori ora superficiali, ora cinici. I giovani vedono negli anziani un ostacolo, un peso, qualcuno che gli sta rubando il futuro. Ed è brutto vivere così. Per tutti”.  C’è dunque da rigenerare il senso civico, c’è da riformare un’etica civile.

  2. Il bene comune. Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro ( n. 164 del Compendio della Dottrina sociale della Chiesa).

Dunque il bene comune non consiste in una definizione filosofica astratta, ma va perseguito concretamente, commisurando alle reali situazioni storiche concrete in cui si opera. Si tratta cioè di garantire insieme sia il bene di tutti sia la dignità, la libertà e la responsabilità dei cittadini. In altre parole, il raggiungimento del bene comune  suppone sempre il rispetto:

  1. della legalità, cioè delle regole comuni di comportamento civile;
  2. dell’etica, cioè l’atteggiamento costante ai valori della dignità personale e sociale;
  3. della coscienza religiosa, che è il fondamento insostituibile su cui poggia e si alimenta la stessa coscienza etica.

A questo punto nasce la domanda: quale contributo la Chiesa e i cristiani possono dare al superamento della crisi in cui versa la città, la polis? Rispondiamo con tre riflessioni.

La prima riflessione: dobbiamo prendere coscienza della complessità della crisi della città: una crisi epicale! Le cause che stanno all’origine di questa crisi sono diverse e complesse, ma tutti portano alla perdita del senso del bene comune. Il tessuto della convivenza civile si è lacerato.

Da una parte sono venute meno l’omogeneità culturale e la condivisione dei valori su cui poggiava il senso di appartenenza tra i cittadini; dall’altra, si è moltiplicata sul medesimo territorio la presenza di identità culturale, etniche e religiose  diverse.

Anche per questo la perdita del senso del bene comune è forse più sensibile a livello locale, nelle nostre città, dove l’individualismo dominante ha ghettizzato il territorio, smembrandolo in quartieri separati (e qualche volta contrapposti tra loro): i quartieri a forte presenza di immigrati e i quartieri riservati ai nativi; quelli ricchi e quelli poveri; quelli residenziali al centro e quelli dormitorio in periferia.

Di conseguenza, oggi è diventato più difficile vivere in città. In alcuni quartieri in cui domina la malavita, i cittadini non si sentono sicuri nemmeno in casa e hanno paura. Perciò, chi può, cerca di evadere e di rifugiarsi dove è ancora possibile una vita a misura d’uomo.

Da qui l’urgenza di impegnarci per la rinascita della città. Ma questo significa contribuire efficacemente alla nascita di un mondo nuovo. Solo così è possibile restituire alla città un volto umano, ridare alla città un’anima.

E passiamo così alla seconda riflessione.

Mantenendo l’immagine dei tre luoghi- simbolo della città, il primo impegno dovrà essere quello di creare Piazze nuove in città. Infatti, la vecchia Piazza ha cominciato a perdere significato sociale nella misura in cui in città la vita di relazione è venuta facendosi via via più difficile.

La presenza dell’altro e l’incontro tra diversi – di cui la Piazza è stata sempre il simbolo – oggi non sono più considerati come una ricchezza, ma sono visti piuttosto come un ostacolo  che rende più difficile l’integrazione sociale e spinge i cittadini ad isolarsi.

La disoccupazione, la precarietà, la diffusione delle droghe e altre piaghe sociali hanno finito col creare nuove sacche di povertà e nuove barriere psicologiche, a cui si è aggiunto, da ultimo, l’espandersi disordinato del fenomeno immigratorio.

Perciò, in città si moltiplicano i casi di discriminazione e di esclusione sociale, crescono la diffidenza e l’isolamento, perché l’altro, il diverso fa paura. Ma chi “si isola – ammonisce il Cardinale Martini – è destinato a fuggire all’infinito perché troverà sempre un qualche disturbo che gli fa eludere il problema della relazione”.

La città, dunque, ha bisogno di nuove Piazze, cioè di nuove reti di relazione, che favoriscano il rafforzamento dei legami di solidarietà, già operanti in città: da quelli familiari a quelle delle amicizie, dei gruppi sociali e culturali, politici ed ecclesiali.

In particolare, per ricompattare il tessuto lacerato della città, c’è bisogno di gesti concreti di solidarietà verso gli ultimi e non di sacche di privilegio o di degrado sociale che invece disgregano.

Non dobbiamo dimenticare che in ogni persona c’è un aspetto di bisogno: a volte economico (povertà), a volte sociale (gli ultimi, i senza voce, coloro che non sono ascoltati), a volte esistenziale (i soli, i vecchi, i malati, gli emarginati, gli abbandonati).

La città ci ospita tutti: coloro che sono bisognosi in modo più visibili desiderano potersi fidare di noi, attendono che abbiamo fiducia in loro, che li difendiamo, che li guardiamo in faccia dicendo loro semplicemente: “Coraggio, ti sono vicino”. La città è vicinanza, prossimità tra gli uomini e le donne, è l’occasione più propizia per amare il prossimo.

Ecco che cosa attende la città da noi. Specialmente dai cristiani. Attende che usciamo da noi stessi, dal nostro individualismo e ci impegniamo a tracciare sentieri di convergenza politica, economica ed epica con gli altri.

Non c’è altra via per l’umanizzazione della città: in caso contrario, avanzeranno il deserto e la barbarie. Noi cristiani crediamo che il Figlio di Dio si è fatto uomo, nostro fratello, ed “è venuto ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14) in virtù di questa fede dovremmo avere una sensibilità di comunione, di solidarietà e di fratellanza.

Pertanto, non possiamo rimanere chiusi in casa o in chiesa e assentarci dalla vita della città. Dobbiamo adoperarci perché la città, nel suo insieme, si fondi sulla solidarietà oltre che sulla giustizia.

La giustizia certamente ci vuole; essa è il fondamento della convivenza civile, però la giustizia da sola non basta a rendere umana e vivibile la città. Occorrono anche la solidarietà e la fraternità.

Il secondo impegno deve essere quello di aprire il Palazzo di Città alla partecipazione attiva e responsabile degli abitanti. Esso deve ritornare ad essere il luogo-simbolo di quello spirito di servizio da cui hanno avuto origine l’idea e il nome stesso di Comune. Se il Palazzo di Città si chiude in se stesso, finisce prima o poi in mano ad amministratori di dubbia legalità e privi di senso civico, ridotti al rango di semplici burocrati, indifferenti al bene comune della cittadinanza. Le conseguenze del degrado amministrativo sono molto gravi, gli sperperi e le indebite appropriazioni di denaro pubblico si moltiplicano, e sono un oltraggio alla gente, agli onesti e ai poveri  e rischiano di aprire le porte della città alla criminalità organizzata. I giornali e i telegiornali ne sono la documentazione quotidiana.

Ora, il Palazzo Comunale è il primo volto dello Stato che il cittadino vede e con il quale s’incontra; è il luogo dove egli fa la prima esperienza della complessità della vita sociale, dei suoi conflitti e del primato del bene comune.

Si può dire che il senso dello Stato nasce e cresce, oppure muore, all’ombra del Palazzo di Città, dove i problemi locali si intrecciano con quelli nazionali. Se cede il Palazzo comunale,  muore la legalità; se muore la legalità, muore la città; se muore la città, muore lo Stato. Ora, per rimuovere il Palazzo non c’è un’altra via che aprirsi alla partecipazione attiva e responsabile della cittadinanza, su cui si basa la democrazia matura.

Il terzo impegno riguarda il nuovo modo di porsi della Cattedrale nel cuore della Città (della comunità ecclesiale). La Chiesa è il luogo simbolo della dimensione trascendente del bene comune e della convivenza umana. Infatti, se è esatta la diagnosi fatta  fin qui, è chiaro che la soluzione della crisi non può venire soltanto dalla elaborazione di un nuovo piano urbanistico.

A che servirebbe rendere i centri urbani più belli e attraenti dal punto di vista architettonico, se poi rimanessero culturalmente e spiritualmente fatiscenti? Il futuro della città, infatti, dipende molto più dal costume e dalla cultura dei cittadini che dalla bellezza dei suoi edifici o dal buon funzionamento dalle istituzioni e dei servizi.

E’ urgente, oltre che importante, che ritorni l’etica nella città dell’uomo, a partire dalle qualità civili e morali dei cittadini. Solo recuperando l’identità culturale e spirituale perduta, si può recuperare il senso del bene comune e rendere umanamente vivibile lo spazio urbano.

Ecco perché, accanto alla necessità di nuove Piazze e di un Palazzo di Città aperto alla società  civile, occorre che anche la Chiesa rinnovi il suo rapporto con la città e con i cittadini. La presenza della Cattedrale nel centro della città è il simbolo eloquente del molto che la Chiesa ha da ricevere dai cittadini e del molto che la Chiesa ha loro da offrire.

Lo stile di questa presenza è stupendamente illustrato nella lettera a Diogneto, uno straordinario testo cristiano del II sec., vi si legge: “I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio né per lingua né per abiti. Non abitano neppure città proprie, né usano una lingua particolare, …. ma testimoniano uno stile di vita mirabile e, a detta di tutti, paradossale …. risiedono nella loro patria ma come stranieri domiciliati (pàroikoi); a tutto partecipano come cittadini e a tutto sottostanno come stranieri (xènoi); ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera”.

Decodificando questo brano, possiamo dire così: i cristiani non pretendono di reggere da soli la società; non pretendono di imporre le loro convinzioni; non evadono dalla storia e dall’impegno di costruire la “polis” insieme agli altri concittadini. Fedeli alla terra, i cristiani sono fedeli alla città, anche quando essa è loro nemica. Sono pienamente solidali con gli uomini in mezzo ai quali vivono. Sono sempre impegnati nel cammino di umanizzazione che riguarda tutti.

E’ la vocazione cristiana che richiede ai cristiani di essere profeti per la città, inviati alla città per portarle il Vangelo, per recarle l’annuncio della pace, per servire l’umanità. Così essi possono  mostrare “la differenza cristiana” tra gli uomini: costruendo la città insieme agli altri, senza per questo abdicare alla loro fede e alle esigenze del Vangelo.

Questa fedeltà al Vangelo, nella concretezza del quotidiano, implica due cose:

  • Condividere con tutti fraternamente le sofferenze, i problemi, le speranze, i progetti, senza temere - quando occorre - di interrogare criticamente la Chiesa sulle sue manchevolezze e i suoi comportamenti.
  • Denunciare i meccanismi violenti che opprimono i poveri nelle nostre città ed esprimere questo servizio crocifiggente senza sottintesi clientelari: solo perché l’uomo sia più uomo; solo per illuminare i problemi dell’uomo con la luce della fede. Denunciare ed educare! Denunciare e proporre! La Chiesa non può mancare al grave dovere di orientare le coscienze, esprimendo con franchezza evangelica un giudizio morale non sulle persone ma sulle culture politiche e i suoi modelli di società che si confrontano nel paese, sulla disonestà dei “comitati di affari” e delle “ reti clientelari”, sulla coerenza morale o meno di comportamenti e di scelte che hanno una forte ricaduta sulla vita pubblica. Per i pastori, ma non solo, questo significa non anteporre mai la diplomazia alla profezia, la burocrazia al servizio, i riti alla carità operosa.

Ai fedeli laici bisogna ricordare che le iniziative culturali e il servizio ai poveri sono necessari ma complementari e non alternativi all’animazione cristiana della politica, la quale rimane sempre la forma più ampia di carità e di servizio al bene comune.

“Oggi, dice E. Bianchi: -in una situazione così plurale e complessa - noi siamo tentati di arroccarci in una cittadella, di assumere posizioni difensive, di nutrirci di ansie e di paure proprie delle minoranze”. Così facendo diventiamo lievito inutile non presente nella pasta (Cfr Mt. 33), sale che ha perso il suo sapore (Mc 9,50), luce nascosta sotto il moggio (Mc 4,21). Siamo una minoranza, ma se siamo significativi, se siamo capaci di profezia (cioè di parlare in nome di Dio), saremo innanzitutto fedeli alla vocazione ricevuta, ma poi sapremo anche infondere fiducia e ridare speranza agli uomini. E se, come Chiesa, sapremo essere luogo di dialogo e di libertà, allora diventeremo “casa di comunione” e quindi anche “ scuola di comunione” per tutti gli abitanti della città.

Infine 3° riflessione è necessaria una nuova passione per la città. Noi dobbiamo restituire un’umanità più calda alle nostre città. Tante cose oggi sono cambiate, tranne una: il bisogno dell’uomo di pane e di affetti, di bellezza e di tenerezza.

Impariamo da Gesù: Egli sapeva ascoltare, accogliere, comprendere e prendersi cura. Due cose sono da recuperare, oggi: l’ascolto e la sensibilità. Senza di queste due cose non c’è vera passione per la città.

  • L’ascolto, anzitutto. Diceva Bonhoffer: “ Molti sentono, ben pochi ascoltano”. Ascoltare infatti, è un esercizio della mente e del cuore,  che va ben oltre il sentire  dei sensi. Amare la città significa saper ascoltare, cioè penetrare oltre la superficie, contemplarla, scaldarla, fino a che fioriscono le ignote possibilità, i germi di verità, i semi di sogno che ci sono in essa. Per trasformare la città, devo non solo ascoltare, ma capire. E questo chiede testa e cuore. Non solo testa, né solo cuore, ma testa e cuore, insieme.

  • Il secondo valore da recuperare è la sensibilità. Dobbiamo sapere quanto costa vivere, come lo sapeva Gesù. Dobbiamo scoprirci umani, e la prerogativa dell’essere umani è l’essere sensibili. Più siamo umani, più siamo sensibili. La cosa che ci ha ucciso dentro, oltre al non sapere più ascoltare, è il non essere sensibili, capaci di emozione e di compassione: cfr i quattro stadi della maturità umana: compiacenza, conformismo, convinzione, compassione.

E’ questa la via verso un rapporto fecondo dell’uomo con la città. Mettiamoci alacremente al lavoro, confidando nella presenza e nell’aiuto dello Spirito di Dio. Senza scoraggiarci, se non vediamo subito i frutti del nostro impegno. Quello di oggi, infatti, è il tempo dell’emergenza educativa, e dunque tempo non di mietitura, ma di semina. E “chi semina nel pianto, mieterà nella gioia”.

† Giuseppe Costanzo

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vedi il video dell'intervento di Monsignor Salvatore Costanzo.

Commenti 

 
#1 Giovanni Spinali 2013-04-23 19:47
Riappropriamoci attraverso la partecipazione e la riscoperta delle
nostre nuove identità del Bene Comune.Attraverso la piazza,il comune,la chiesa impegniamoci a costruire una società più giusta e più equa.Non lasciamoli agli opportunisti."cambiare il mondo amico Sancho,non è follia nè utopia ,bensi' giustizia"Miguel Cervantes.Don Chisciotte della mancia.
 

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